lunedì 21 novembre 2011

Interviste: Aldo Chimenti

Rockerilla contro il “mostro digitale”.

Se non conoscete il nome Aldo Chimenti evidentemente non avete mai avuto tra le mani Rockerilla. Se non avete mai avuto tra le mani Rockerilla significa che non avete mai letto uno dei principali music magazine italiani, apparso nelle edicole più di trenta anni fa a contendersi il pubblico degli appassionati di rock con Il Mucchio Selvaggio e Ciao 2001. La rivista era nata per abbracciare le nuove tendenze provenienti da oltremanica, in particolare il punk, la new wave e tutti i generi correlati, questo ne faceva la mia rivista preferita ed è sempre rimasta nel mio cuore. Aldo Chimenti scrive su Rockerilla dal 1985 e il suo campo prediletto è appunto quello della new wave e del rock oscuro. Lo abbiamo incontrato per scambiare quattro chiacchiere su di lui e sullo stato di salute dell’editoria musicale italiana.

Come ti sei scoperto giornalista musicale? Qual è stato il tuo primo gruppo recensito e dove hai fatto pubblicare la tua prima recensione?
Prima di rispondere alla tua domanda, devo premettere che la mia presenza nel mondo del giornalismo musicale non sussiste a titolo di attività professionale, ma per pura passione. Ho cominciato ad accarezzare il sogno di collaborare ad un rivista rock nei primi anni ottanta. All’epoca venni letteralmente travolto dai moti generazionali del punk e della new wave, con particolare riguardo ai gruppi emergenti della scena inglese ed americana, seguiti a ruota dall’ondata italiana di fenomeni di rottura quali The Great Complotto/Pordenone e le avanguardie che venivano a formarsi, di focolaio in focolaio, nelle nostre città, da Torino a Milano, Bologna, Firenze, ecc. Ne ho respirato la temperie a pieni polmoni e questo deve aver fatto da molla. I miei canali d’informazione risiedevano preferibilmente nelle fanzine e nei periodici della stampa specializzata d’oltremanica come New Musical Express, Melody Maker, Sounds, The Face… Le testate nazionali da cui siamo passati un po’ tutti erano Ciao 2001, Il Mucchio Selvaggio, Buscadero, Musica ’80 e naturalmente Rockerilla. Tra le fanzine nostrane, ve n’erano alcune davvero formidabili, tra cui Amen, Free e Vinile. Peccato però che ebbero vita breve. Allora ero anche un assiduo lettore di Frigidaire. Rockerilla divenne presto l’organo d’informazione più apprezzato in ambito di musica indipendente, un osservatorio particolarmente vigile e attento sugli accadimenti e gli sviluppi del nuovo corso, a cominciare dal punk, mantenuto a pieno regime grazie ad un team di collaboratori preparati e coinvolti. Una delle rubriche che amavo di più era quella dei singoli, 45 GIRI, curata da Beppe Badino, un bollettino sempre molto atteso perché sgominava le ultime istanze dell’underground internazionale dandone puntualmente conto. Seguivo con interesse anche gli articoli di Maurizio Bianchi, che era stimolante leggere già solo per lo stile della sua incredibile penna, e Vittore Baroni, gli esperti in materia di avanguardia e gruppi d’area postindustriale. Il caso volle che la mia prima recensione apparve proprio sulle pagine della rivista di Cairo Montenotte, mi pare sul numero di Aprile 1985, il disco in oggetto era “Night Time” dei Killing Joke.

Ah! Complimenti… ma come sei arrivato a scrivere su Rockerilla?
Grazie alle mie frequentazioni nel negozio di dischi più gettonato di allora, Rock & Folk, dove ebbi l’opportunità di conoscere un noto collaboratore storico di Rockerilla che in quel negozio vi lavorava. Quando gli confidai che mi dilettavo a scrivere di musica, ma che nulla di mio era mai stato pubblicato, non solo mi incoraggiò a fare il grande passo, ma fu egli stesso a mettermi in contatto con i responsabili del giornale per decidere di una mia eventuale collaborazione. La recensione test che inviai in redazione venne accolta favorevolmente. Fu così che ebbe inizio la mia piccola avventura nel mondo dell’informazione musicale.

Rockerilla è stata da sempre la mia rivista preferita perché era nata abbracciando le nuove tendenze musicali degli anni ’80, ho ancora impresse nella mente alcune copertine storiche come quelle con Cosey Fanni Tutti, Public Image Ltd, The Cure, DAF, Echo And The Bunnymen. Cosa significa oggi per Rockerilla essere ancora all’avanguardia?
Non è facile, soprattutto oggi, dovendo fare i conti con la forza egemone di internet. Se Rockerilla tiene duro nonostante i tempi sfavorevoli, è perché c’è ancora qualcuno che crede nell’importanza dell’editoria specializzata in forma cartacea. E anche perché Rockerilla può ancora contare sullo spirito di dedizione e la competenza di bravi critici musicali, oltre ovviamente al contributo fondamentale dei lettori che acquistano il mensile. Qualche tempo fa un amico mi disse che Rockerilla meriterebbe di essere elevato a status di bene culturale.

Sulle pagine della rivista ti occupi prevalentemente di new wave, gothic e rock oscuro in generale, generi nati sul finire degli anni ’70 insieme a Rockerilla. Chi incarna oggi, secondo te, lo spirito primigenio di quel movimento? I Joy Division hanno dei degni eredi?
Per trovare un erede degno dei Joy Division non bisogna cercare fra le nuove generazioni, ma nella vecchia guardia dell’after punk inglese ed in questo momento mi vengono in mente solo i Section 25, il gruppo più amato da Ian Curtis. La cosa triste è che anche Lawrence Cassidy, membro fondatore e cantante dei Section 25, ci ha lasciato per sempre e a guidare il gruppo attualmente è il fratello Vincent con la figlia di Larry Bethany. Fra le nuove leve trovo interessanti gli Editors più ancora che Interpol e White Lies, ma sono solo un pallido riflesso dell’eredità lasciata dal quartetto di Manchester. Secondo me, gli scozzesi Arab Strap, oggi purtroppo non più attivi, hanno incarnato più di altri lo spirito di cui parli, seppur in maniera assolutamente autoctona e contestualizzata.

Quindi ha ancora senso continuare a parlare di musica dark?
Innanzitutto dobbiamo metterci d’accordo su cosa intendiamo per dark, termine questo che ha creato un po’ di confusione. Se con questa etichetta si designa un sottogenere del punk e della new wave, allora il cerchio si chiude attorno ad una manciata di nomi in qualche modo legati alle prime vicende del Batcave, il club londinese dove si esibivano gli astri nascenti del gothic-rock. Fu lì che germogliò il seme del dark, dando origine ad una scuola cui, a torto o a ragione, furono assimilati, fra gli altri, Bauhaus, The Sisters Of Mercy, UK Decay, Virgin Prunes, Christian Death, Alien Sex Fiend, Play Dead, Cure, Siouxsie And The Banshees, The Danse Society, Dead Can Dance, Sex Gang Children, per arrivare alle generazioni dei Fields Of The Nephilim, Ausgang, Bone Orchard e quant’altro. Se ci pensi, tutto questo oggi è finito da un pezzo perché il dark, in origine fenomeno che aveva delle cose interessanti da dire, è andato esaurendosi nel giro di pochi anni. Un altro grande bluff del rock’n’roll? Le ultime sacche di resistenza della popolazione dark, italiana e/o straniera che sia, che oggi trova diritto di cittadinanza in altri domini musicali quali l’EBM e limitrofi, credo non siano altro che ombre che sopravvivono a se stesse.
Negli anni ottanta c’era poi la pessima abitudine (ma forse ancor oggi) di bollare come dark qualunque cosa suonasse un po’ più tenebrosa e crepuscolare del solito, facendo di questo termine un marchio inflazionato che finì per non significare più nulla. Rappresentare il lato oscuro dell’esistenza, raccontare la tragedia, vestirsi di nero, esplorare il mondo dell’occulto e cantare il declino della nostra epoca, che oscura è per definizione, non è prerogativa e variabile fissa di un solo genere o ambito musicale, ma è espressione di un sentire che qualunque sensibilità artistica è deputata a elaborare senza essere fatta oggetto di sterili cartelli. Ciò che fa differenza sono, come sempre, il talento e l’ispirazione. Il rock ha consegnato pagine indimenticabili su questo fronte tematico. Negli anni ‘60 band come HP Lovecraft consegnavano alla storia un paio di capolavori ispirandosi allo scrittore di novelle horror da cui hanno preso il nome, mentre gli Electric Prunes nel 1968 introducevano il canto gregoriano nella psichedelia. Senza poi parlare delle correnti neo-decadentiste e filoesoteriche del progressive e del kraut-rock settantino. Chi non ha cantato la notte e il mistero della vita in musica? Ma alla notte bisogna contrapporre la luce, la scintilla del poeta che fa emergere verità e forme di bellezza altrimenti inarrivabili.


Veniamo a questioni più tecniche: il nuovo millennio ha coinciso con la crisi della musica, la fine dei supporti fisici e l’avvento degli mp3. Quale pensi sia la causa principale di questa crisi, solo una questione di supporto o più profondamente una crisi culturale?
L’ultima ipotesi è la più calzante, una crisi culturale da imputarsi sostanzialmente all’ascesa del mondialismo e della globalizzazione, frutto di una rivoluzione tecnologica che ha cambiato le regole del gioco, accorciando le distanze e cancellando le differenze, con un conseguente effetto di appiattimento deleterio. Non vorrei apparire antiquato, ma che razza di valore aggiunto ha portato l’avvento dei formati digitali nella musica? Temo nessuno, solo una banalizzazione del gesto creativo. Tutto dipende dalle aspettative che ognuno pone nei confronti della musica, se relegarla a semplice oggetto di consumo o se in essa si cerca quella scintilla di cui s’è detto sopra, un indizio d’arte illuminata e ricchezza di contenuti; se poi c’è una punta di originalità e magari un guizzo di stimolante follia, tanto meglio. Una bella prova d’autore non può essere svilita gettandola nel calderone indifferenziato della rete, ma onorarla nell’unico modo dovuto, vale a dire nel disco insieme a tutto ciò che lo correda e completa -cornice grafica, trascrizione dei testi, note di copertina…-, possibilmente nell’intramontabile formato vinile. E quindi godersi il rito dell’ascolto come un sogno, come momento magico cui dedicarsi con tutti i sensi e sentimenti. Altroché mp3 e cultura dell’usa e getta!

Nonostante la crisi della musica, Rockerilla e poche altre riviste cartacee specializzate sopravvivono ancora alle intemperie. Quali difficoltà bisogna affrontare per essere ancora nelle nostre edicole?
Proprio a causa dei moderni sistemi di comunicazione di massa e della situazione di cui abbiamo appena detto, curare e pubblicare una rivista seria in forma cartacea oggi è un’impresa piuttosto impegnativa che comporta dei costi difficilmente compensati dalle vendite. Per sopravvivere, una rivista tradizionale deve fare appello – altro aspetto doloroso – agli sponsor e alle pubblicità di settore. Ma oltre a questo, torno a dire, serve tanta determinazione e la voglia di crederci.

Pensi che il futuro dell’editoria musicale sia sul WEB o che non si potrà mai prescindere dal formato cartaceo?
Chi può dirlo? Ormai siamo pronti a tutto. Forse arriveremo al punto in cui per produrre carta stampata si dovrà di nuovo ricorrere al ciclostile. Lo zoccolo duro dell’editoria classica contro i moloch dell’informazione digitale. La sfida è ancora aperta.

L’esplosione di internet ha portato alla nascita della fanzine online, la cosiddetta “webzine”, alcune di esse sono molto professionali, molte altre meno, spesso dalla vita effimera. Come pensi abbia cambiato il mondo della informazione musicale la nascita delle webzines? Da giornalista della carta stampata, come vivi queste trasformazioni nel mondo dell’informazione musicale?
Personalmente non amo molto le webzine. Questo non significa che non vi siano dei blog titolati dove attingere notizie o leggere interviste e recensioni di critici informati e competenti. Ma siamo sempre lì. Il web è una piattaforma troppo dispersiva, quando non approssimativa e confusionaria. Il pluralismo va bene, ma a tutto c’è un limite. Farsi bombardare la testa da mille opinioni diverse sullo stesso argomento francamente non credo sia molto utile. Meglio muoversi cautamente fra le maglie della ragnatela… E poi vuoi mettere il piacere tattile e visivo di sfogliare una bella rivista?

Escluso Rockerilla, quali magazines musicali legge Aldo Chimenti? Dai mai una sfogliata alle riviste “rivali” come Il Mucchio Selvaggio, Blow Up e Rumore?
I giornali che citi li seguo tutti serenamente. Leggo spesso anche Ritual e Ascension Magazine. Quando riesco a recuperarli, non disdegno periodici stranieri come Uncut, Mojo, NME, Zillo… Ma ti confesso che rimpiango sempre di più le vecchie fanzine realizzate con pochi mezzi nello spirito del DIY e della ricerca appassionata. Forse è il caso di ripensarci.