domenica 4 dicembre 2016

La fine del download musicale e l'esplosione dello streaming.

Cambiano ancora i modi di fruire la musica grazie alle nuove tecnologie, ma stavolta non tutto nel meccanismo funziona a dovere.
C'era una volta il vinile. Dopo aver dominato per 70 anni l'industria discografica, giunse ad insidiarne il primato un prodotto tecnologicamente avanzato come il compact disc (cd), dal supporto  maneggevole e dal suono pulito e cristallino (“freddo” per alcuni). Non fu facile scalzare il vinile dal suo primato, ma, alla fine, l'industria del supporto digitale ebbe la meglio, con la chiusura di storiche stamperie e la sparizione dei Long Playing dai negozi di musica. Ma il piccolo disco si era appena imposto, quando un nuovo antagonista si affacciò all'orizzonte, un nemico subdolo, capace di muoversi liquidamente da un computer all'altro senza bisogno di supporti fisici: era arrivato l'mp3, un file musicale in formato compresso, e quindi dal peso ridotto, che era possibile scaricare legalmente via internet da piattaforme come Apple iTunes, ma più spesso illegalmente da siti come Napster (pioniere del file sharing illegale), eMule o Torrent. Gli album venivano così a trovarsi in anonime cartelline sul PC, con le canzoni trasformate in semplici bit, che potevano essere scambiati tra utenti facilmente e gratuitamente, sempre per via telematica. L'industria musicale subì  quel colpo al cuore che l'avrebbe ferita mortalmente, con le case discografiche costrette a ristrutturarsi e a licenziare migliaia di dipendenti a fronte di perdite di milioni di dollari. Effettivamente il colpo fu duro e nulla sarebbe stato più come prima. E se l'mp3 sembrava il nuovo dominatore assoluto della fruizione musicale, ecco la tecnologia sferrare il suo nuovo e feroce attacco: arriva lo streaming. Si va su internet, si scarica il programmino (su PC o su smartphone) e milioni di album sono a portata di mano per l'ascolto, senza nemmeno il bisogno di archivi immensi di mp3 sull'hard disk. Pionieri della musica in streaming sono stati gli svedesi di Spotify, tutt'ora con il programma più famoso ed utilizzato, seguiti dai francesi di Deezer e a ruota da Music, la risposta della Apple, trovatasi di colpo in affanno con il suo iTunes.

E chi viveva di brani scaricati dal WEB sul proprio hard disk, legalmente o illegalmente, si è trovato improvvisamente a cambiare ancora abitudini per poter ascoltare la sua musica preferita e restare al passo con i tempi. Secondo recenti sondaggi, negli USA il mercato del download è sceso del 42% rispetto alle migliori performance del 2012 e l'acquisto dei singoli brani è sceso del 24% nel solo primo semestre 2016. Le vendite del primo semestre hanno comunque fruttato circa 400 milioni di dollari, ma il dato dei tempi d'oro del 2012 era stato di quasi 700 milioni di dollari. Al contrario lo streaming è esploso vertiginosamente con un + 97,4% rispetto al 2015, con l'impressionante dato di 113 miliardi di canzoni ascoltate nel primo semestre 2016, cioè l'equivalente di 620 milioni di canzoni al giorno e 431.000 brani musicali al minuto. Un brutto colpo per il download, tanto che gli analisti profetizzano che entro 2020 esso sparirà definitivamente dal mercato musicale. Sempre le solite statistiche ci raccontano che le vendite dei CD fisici diminuiscono ancora, ma non così tanto come era stato previsto. Il crollo del download non li ha fatti sparire dal mercato come, ad un certo momento della storia, sembrava un fatto scontato. Anzi, si assiste addirittura ad una rinascita del vinile, che continua la sua crescita con un +11,5% rispetto al 2015. Ma il Re per l'ascolto musicale di oggi resta comunque lo streaming. «L’industria musicale è ormai un business digitale, che deriva oltre il 70% dei suoi ricavi da una vasta gamma di piattaforme e formati digitali. La quota di ricavi da questi formati digitali supera quella di qualsiasi altra industria creativa», ha dichiarato Cary Sherman, presidente e amministratore delegato di RIAA (Recording Industry Association of America).


È tutto oro quello che luccica? Non proprio. O perlomeno non per tutti. Lo streaming di un singolo brano frutta all'artista una quota pari ad una frazione di centesimo (0,003 cent su Spotify, ad esempio) e, facendosi un rapido calcolo, scopriamo che la remunerazione è veramente ridicola, pur se si viaggia su numeri di centinaia di migliaia di streaming. Ed è questo il motivo per cui alcune etichette, prima delle quali la statunitense Projekt Records, hanno deciso di ritirare i loro artisti da Spotify, accusando il colosso della tecnologia digitale di lucrare a spese dei musicisti. Di conseguenza grandi star del calibro di Led Zeppelin, Pink Floyd, Taylor Swift e Adele, hanno rifiutato di mettere a disposizione dei servizi di streaming online il loro lavoro.  «Il consumo di musica è alle stelle, ma i ricavi per gli artisti non hanno tenuto il passo» ha giustamente osservato Sherman «Sono necessarie delle riforme per “livellare” il campo di gioco e assicurare all’intera comunità musicale il valore pieno ed equo del proprio lavoro». 
Riforme che, al momento, non si vedono all'orizzonte. La prossima sfida del mercato musicale sarà quindi di far sì che l'artista veda il proprio lavoro adeguatamente retribuito, agendo sui meccanismi del sistema e sulla distribuzione dei guadagni.